Documento Politico del Presidio Antirazzista di Chinisia

A distanza di tre anni dall’inizio della crisi economica che ha investito tutte le economie del globo, le soluzioni proposte dai governi sono quelle di sempre: tagli alla spesa pubblica, aumento esponenziale delle spinte securitarie e reazionarie, apertura di nuovi fronti di guerra; nessuna revisione del sistema che ha prodotto la crisi, né redistribuzione dei capitali, né sostegno ai redditi dei lavoratori, né investimenti nella formazione e nella ricerca. Il lavoro è diventato un costo, da “ridurre ad ogni costo”, in nome di flessibilità, precarietà, esternalizzazione. Sulle spalle dei popoli ricadono tutte le spese, mentre i profitti rimangono nelle mani di pochi o si perdono nel labirinto della finanza internazionale. Ma i popoli del mondo non sempre sono disposti ad accettare questa perversa divisione dei ruoli, tra chi lavora, chi fatica e muore di fame e chi usurpa le ricchezze del pianeta, specie quando in ballo c'è la loro stessa sopravvivenza. Dalla fine del 2010 ad oggi, si sono susseguite nel Maghreb e nel Mashrek una serie di rivolte popolari che hanno scosso e messo fine a regimi dittatoriali, apertamente appoggiati e finanziati dalle “democrazie“ occidentali. Prima il popolo tunisino, poi quello egiziano hanno scardinato le poltrone del potere, milioni di persone si sono riversate nelle strade chiedendo con un'unica voce democrazia, riforme sociali, reddito, diritti civili e politici, capovolgendo i paradigmi della crisi stessa. Le straordinarie capacità politiche e comunicative messe in campo in quei luoghi hanno messo in difficoltà gli equilibri di potere presenti fino ad adesso. La straordinaria forza di questi movimenti e di questi popoli nasce proprio dalla volontà di conquistarsi il diritto ad una vita libera e dignitosa, non volendo più essere costretti a vivere da schiavi nei propri paesi in nome degli interessi occidentali, non volendo più rischiare di morire in mare o finire rinchiusi nei lager della fortezza Europa, nell'unico e disperato tentativo di cercare migliori condizioni di vita e di lavoro. Ma dal 19 marzo c'è anche una guerra. In queste settimane la Libia è finita sotto i bombardamenti della Nato, sconvolta nelle ultime settimane da una guerra civile che vede scontrarsi le truppe fedeli al rais Gheddafi e i cosiddetti “insorti”. Ci dicono che un bombardamenti servono ad aiutare chi insorge contro il regime di Gheddafi, lo stesso dittatore con cui il governo italiano non molto tempo fa, nell’agosto del 2008 ha sottoscritto un “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” con il quale l’Italia si impegnava a realizzare progetti infrastrutturali per una spesa di 5 miliardi di dollari e per un importo annuale di 250 milioni di dollari in 20 anni. La Libia, di contro, si impegnava ad abrogare tutti i provvedimenti e le norme che impongono vincoli o limiti alle imprese italiane operanti nel paese (come l’Eni, l’Impregilo, Unicredit, Finmeccanica e molte altre). L’accordo inoltre prevedeva la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche al fine di combattere l’immigrazione clandestina in sintonia con la politica dei respingimenti italiani, attuato senza controllare, ovviamente, lo stato dei centri di detenzione in libia, dove avvengono gravi violazioni dei diritti umani, ampiamente documentate. Ma forse tutto questo ora fa parte del passato, ciò che conta è sconfiggere Gheddafi, presentando la guerra “umanitaria” come l’unica soluzione alla situazione libica.
Vogliono farci credere che l’intervento militare è necessario e che stiamo dalla parte dei popoli in rivolta, mentre ai “figli della rivoluzione” che in Tunisia hanno rovesciato il regime di Ben Ali riserviamo un trattamento degno di paesi cosiddetti democratici e civili; il governo li chiama “invasori da cui difendersi, clandestini da respingere e rimpatriare”, vengono rinchiusi in isole-ghetto o in tendopoli costruite in fretta e furia per gestire l'emergenza immigrazione. Un giorno i governanti d'Europa dicono di appoggiare il vento di rivolta e il giorno dopo decidono di espellere e rinchiudere quanti vengono dalle rivolte di questi paesi.
Mentre ingannano l'opinione pubblica, strumentalizzando paure, lotte diritti dei popoli africani, la guerra costa e viene pagata dai lavoratori. Questo conflitto si tramuterà in un ulteriore giro di vite per le politiche economiche e sociali riservate a noi lavoratori in Italia, saremo chiamati a nuovi sacrifici per pagarne i costi. Per questi motivi dobbiamo contrastare questa guerra, insieme a lavoratori, precari, studenti, donne e migranti, perché questa guerra è fatta contro le masse in rivolta che lottano per liberarsi dall’oppressione dei governi gendarmi dell’imperialismo nella zona e oggi più che mai dobbiamo rafforzare e rilanciare la nostra lotta contro qualsiasi governo capitalista.
Mentre le ragioni umanitarie delle bomba all'uranio vengono diffusi dai media ufficiali, dalla guerra migliaia di persone scappano. Oggi come ieri il fenomeno dell’immigrazione viene gestito solo in termini di ordine pubblico e di emergenza, si istituisce un commissario straordinario all’immigrazione, l’attuale prefetto Caruso, viene legittimata l’assoluta arbitrarietà delle forze dell’ordine che sembrano seguire regole non scritte in aperta violazione dei diritti fondamentali della persona umana, gli stessi diritti in nome dei quali si sganciano le bombe. La guerra è sotto gli occhi di tutti, questa nuova guerra che il governo italiano sta portando avanti contro i migranti trasformati in prigionieri da portare o meglio deportare da un posto ad un altro, nei CIE, nelle tendopoli, in ”villaggi della solidarietà “o come dir si voglia, confinati in luoghi in cui ogni diritto viene sospeso e ogni dignità umana cancellata. Lampedusa è l’emblema di queste violazioni, di queste reclusioni e di queste deportazioni che colpiscono inesorabilmente tutti i migranti che vi arrivano, colpevoli solo del desiderio di libertà e dunque del potenziale reato di clandestinità. Da più di un mese la gestione della situazione da parte del governo è caratterizzata dalla incoerenza e assoluta arbitrarietà, giocando su pericolose confusioni linguistiche, “si tratta di profughi o immigrati irregolari?”, “Clandestini o rifugiati?”, “scappano dalla Tunisia o dalla Libia?”, “scappano dalla guerra o solo dalla fame?”. Nel dubbio meglio confinarli e rinchiuderli!! Dove? Dovunque ci sia spazio, anche qui nella nostra terra.
A pochissimi km da casa nostra a Chinisia (trapani) è stata predisposta una tendopoli che può ricevere ufficialmente 800 persone e poco importa se le tende sono state montate sull'amianto. Oltre ai 700 tunisini giunti martedì mattina al porto di trapani, altri 100 ne sono arrivati al CARA di Salinagrande, a questi è stato fornito il modello c3 per la richiesta della protezione internazionale. Lo status della tendopoli di Chinisia è ancora indefinito o meglio non corrisponde a nessuna categoria di centro per migranti esistente , difatti questo è un CAI categoria sperimentata ex novo in queste settimane cioè un centro di accoglienza e identificazione in cui la libertà di entrata e uscita dei migranti è a discrezione della polizia , difatti è sospeso lo stato di diritto e continua lo stato di eccezione . I tunisini che hanno impiegato più di 36 ore per raggiungere il porto di trapani da Lampedusa sono dal 5 aprile costretti in questo spazio recintato in piena campagna circondati dal nulla e senza nessun punto d’ombra , la tendopoli non è accessibile ed è presidiata da numerose camionette che girano continuamente lungo il perimetro. Rinchiusi e reclusi in aperta campagna, senza poter uscire: uno strano concetto di accoglienza! Di fronte a queste contraddizioni e alla politica di questo governo criminale, noi chiediamo con forza che queste persone siano accolte nei territori, seguiti e tutelati dal stato e dalle associazioni e non incarcerati in queste tendopoli-lager.
Chiediamo che venga fatta una vera accoglienza che parta dal basso e coinvolgano le comunità locali, ne sia una risorsa e una ricchezza, per non cadere nella retorica della paura, che fomenta una guerra fra poveri e permette ai governanti di ergersi a tutori di una fantomatica sicurezza.
Contro la retorica del governo italiano e di tutti i governi dei paesi europei che scambiano con i dittatori del mediterraneo migranti “legali” (decreti-flusso) per migranti respinti (vedi accordi Italia-Tunisia e Italia-Egitto).
Contro la retorica del pugno di ferro che nasconde la volontà di avere un esercito di riserva ancora più ricattabile, in nero, senza tutele, senza salario
Contro un mediterraneo-frontiera armata, periferia del mondo in cui delocalizzare lo scempio dell'Europa incivile

per un un'Europa dei diritti per tutti e tutte, per un mediterraneo dei popoli
per un mondo senza frontiere, per l'autodeterminazione dei popoli in lotta

Accogliamo i migranti, chiediamo a gran voce la chiusura immediata di Chinisia e di tutti i centri di detenzione. Dignità e libertà di movimento
Da Lampedusa a Ventimiglia presidiamo il nostro territorio, denunciando la violazioni dei diritti dei migranti che si consumano all'interno di questi posti.

PRESIDIO ANTIRAZZISTA DI CHINISIA